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Pubblicazione sul long-COVID-19

Aggiunto il: 30/11/2023
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L’indagine è stata condotta durante giugno-agosto 2022 tramite questionario autosomministrato. La prevalenza di long-COVID-19 è stata indagata a 30-60 o 61+ giorni dalla fine del periodo di infettività (primo tampone negativo).

Su 5.432 lavoratori che hanno partecipato allo studio 2.401 si erano infettati almeno una volta, 238 almeno 2 volte e 8 si erano infettati 3 volte. La prevalenza di COVID-19 lungo dopo un’infezione primaria COVID-19 era del 24,0% a 30-60 giorni contro il 16,3% a 61+ giorni, mentre scendeva al 10,5% contro il 5,5% dopo una prima reinfezione SARS-CoV-2.

I sintomi più frequenti dopo un’infezione primaria COVID-19 erano astenia (30,3%), seguita da mialgia (13,7%), tosse (12,4%), dispnea (10,2%), deficit di concentrazione (8,1%), cefalea (7,3%) e anosmia (6,5%), in ordine decrescente di prevalenza. Il rischio di long-COVID-19 a 30-60 giorni era significativamente maggiore negli operatori ricoverati per COVID-19, quelli infettati durante le prime ondate pandemiche - vale a dire i periodi di circolazione delle varianti Wuhan o Alpha - aumentava progressivamente con la durata della positività al tampone naso-faringeo in particolare 15+ giorni dalla diagnosi di COVID-19. Inoltre il long-COVID-19 era più frequente negli operatori di sesso maschile, in quelli di età superiore a 40 anni, con BMI fuori norma o impiegati nei servizi amministrativi.

Al contrario, gli operatori sanitari vaccinati con due dosi prima dell’infezione primaria, gli studenti universitari o i medici specializzandi avevano meno probabilità di sviluppare il long-COVID-19 a 30-60 giorni. A parte le ondate pandemiche, i principali fattori di rischio per long-COVID-19 a 30-60 giorni si confermavano a 61+ giorni.

Il rischio di sviluppare long- COVID-19 dopo infezione primaria aumentava con la gravità della malattia acuta e la durata di positività del tampone naso-faringeo, soprattutto durante le ondate pandemiche iniziali, quando circolavano ceppi virali più patogeni, e la suscettibilità al SARS-CoV-2 era maggiore poiché la maggior parte degli operatori sanitari non erano stati ancora infettati, i vaccini contro il COVID-19 non erano ancora disponibili. Il rischio di long-COVID-19 quindi diminuiva inversamente all’immunità umorale anticorpale. Tuttavia, la prevalenza di COVID-19 lungo era notevolmente inferiore dopo le reinfezioni da SARS-CoV-2, indipendentemente dallo stato di vaccinazione, suggerendo che l’immunità umorale ibrida non conferiva maggiore protezione rispetto all’immunità ottenuta tramite infezione naturale o vaccinazione separatamente. Poiché il rischio di long-COVID-19 è attualmente basso dalla comparsa della variante Omicron in poi (cioè da dicembre 2021) e i pazienti che hanno sviluppato la sindrome in seguito ad infezione SARS-CoV-2 nelle prime ondate pandemiche tendono a ritornare con il tempo a uno stato di piena salute, un approccio efficiente per lo screening dei sintomi post-COVID-19 dovrebbe concentrarsi ai soggetti più fragili a rischio di ospedalizzazione e/o con prolungato durata di positività al tampone.


SSD Comunicazione, URP, Relazioni esterne, Ufficio stampa/ss

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